Condotti dallo Spirito…

Saluto anzitutto con viva cordialità le numerose e illustri autorità qui

presenti. Desidero poi ringraziare personalmente tutti coloro che in questa

mattinata mi hanno offerto una serie di significative e gradite opportunità.

Così l’opportunità di assistere alla Divina Liturgia celebrata, nella

Basilica del nostro grande e santo patrono Ambrogio, da Vostra Eminenza il

Metropolita Hilarion, che ho avuto la gioia di incontrare per la prima volta e di

conoscere nella sua importante responsabilità di Presidente del Dipartimento

delle Relazioni Ecclesiastiche Esterne del Patriarcato di Mosca.

L’opportunità poi di leggere con grande piacere i discorsi e gli interventi

di Sua Santità Kirill, il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, pubblicati –

grazie alla curatela di Pierluca Azzaro – dalla Libreria Editrice Vaticana

congiuntamente con Sofia: Idea Russa d’Europa. Centro di Alti Studi di

Documentazione: un’iniziativa, questa, di evidente portata ecumenica, che mi

ha fatto rivivere gli incontri fraterni e le affabili conversazioni che ho avuto con

Kirill, allora Metropolita, a Milano in Arcivescovado e in occasione della mia

visita a Mosca, ove mi recai nel settembre 2007, invitato, grazie anche al suo

interessamento, dal suo predecessore il Patriarca Alessio II.

L’opportunità infine di prendere ora la parola in occasione di questa

“presentazione” del libro, che avviene nella prestigiosa sede dell’Università

Cattolica alla presenza del Magnifico Rettore che ha accolto e promosso questa

iniziativa e – aggiungo con ulteriore motivo di apprezzamento – nella nostra

città di Milano, dove da anni la Chiesa Ambrosiana, in dialogo con le altre

Chiese cristiane, promuove cammini ecumenici e guarda con particolare

attenzione e simpatia alla grande spiritualità dell’Ortodossia e della santa

Russia.

Aspetti originali e sensibilità vicine

Il titolo dato alla pubblicazione Libertà e responsabilità: alla ricerca

dell’armonia. Dignità dell’uomo e diritti della persona definisce non solo i

contenuti del pensiero dell’Autore espressi in questa raccolta di interventi

compresi tra il 2000 e il 2008, ma anche e soprattutto ricorda i termini che

entrano in gioco nell’attuale sfida etica e culturale che le società pluraliste e,

in esse, le Chiese e le organizzazioni religiose devono affrontare.

Libertà e responsabilità sono due termini che si richiamano a vicenda, in

modo – oserei dire – imprescindibile. Non si può infatti parlare di libertà senza

responsabilità e viceversa. La ricerca poi della loro armonia, nel pensiero di

Kirill, è condotta in modo originale e, nello stesso tempo, secondo la tipica

visione spirituale e culturale dell’Ortodossia russa, che si caratterizza per un

approccio sinfonico alla realtà. È il tentativo di tenere insieme la modernità

delle questioni con la tradizione della Chiesa Ortodossa.

In Kirill è ricorrente la preoccupazione per l’Europa, verso la quale egli

vorrebbe che le Chiese fossero più impegnate per darle un’anima. Anche se

non fa parte dell’Unione Europea, la Russia appartiene all’Europa per quanto

concerne la sfera del diritto e, ancor prima, per la sua storia e la sua cultura.

Kirill infatti concepisce l’Europa “come fenomeno culturale e spirituale unico nel

suo genere, formatosi nei secoli e che nei nostri giorni ha subito radicali

cambiamenti” (p. 146). “Il nostro grande timore – egli affermava a Vienna nel

maggio 2006 – consiste nel fatto che l’Europa, una volta perduto il legame con il

Cristianesimo, possa, in ultimo, arrivare a forme di violenza morale o addirittura

fisica sulla persona… La storia della Russia del XX secolo deve servire da

ammonimento per l’Europa moderna… Il secolarismo, lo strappo dalle proprie

radici spirituali, rappresenta dunque un grave pericolo per l’esistenza della

civiltà europea” (p. 149).

Vorrei sottolineare che la visione di Kirill nasce nell’alveo di una

singolare esperienza, quella che il popolo russo ha subito e sofferto in settanta

anni di ateismo liberticida. Attualmente la Russia vive una stagione di

rifioritura della propria tradizione ortodossa e della vita civile. In Russia si sta

anche cercando un’inedita collaborazione tra Chiesa e Stato nel ripensare in

termini positivi i rapporti tra religioni e società. Per questo il discorso del

Patriarca non ha l’astrattezza di chi parla da una cattedra accademica, ma ha

l’autorevolezza e la concretezza che provengono dal suo personale vissuto,

dalla storia di prove e sofferenze del suo popolo, dalla ricerca e

sperimentazione di vie nuove.

Inoltre, troviamo alcune convergenze significative tra aspetti del

pensiero di Kirill e sensibilità espresse da Papa Benedetto XVI. Già durante i

due pontificati precedenti di Giovanni Paolo II a Roma e di Alessio II a Mosca

erano emersi, tra il Cattolicesimo romano e l’Ortodossia russa, punti in

comune riguardo ai temi dell’etica e dell’antropologia. Era infatti l’allora

Metropolita Kirill a rappresentare la Chiesa Russa nelle sue Relazioni esterne e

proprio a quell’epoca risalgono i suoi interventi che ora leggiamo riuniti in

questa pubblicazione.

Poi, in un suo intervento del 2005, egli stesso dà testimonianza della

sua intesa con il nuovo Papa: “Sono stato ricevuto da Papa Benedetto XVI in

udienza privata il giorno successivo alla sua intronizzazione. Abbiamo parlato di

questo: oggi la Chiesa Cattolica e la Chiesa ortodossa sono le uniche

naturalmente alleate nella dura lotta in corso che vede contrapposti da un lato

tradizione cristiana e dall’altro l’ideologia neoliberale secolarizzata. Insieme ai

cattolici possiamo difendere i valori cristiani. Abbiamo già maturato

un’esperienza comune in questo senso: è il fecondo dialogo intrapreso nel corso

della preparazione del progetto di Costituzione europea. È in quel frangente che

abbiamo raggiunto un’intesa” (pp. 107-108).

Un’intesa, questa, che ora ci auguriamo possa esprimersi, quanto

prima, anche nell’incontro solenne tra i due Primati e nell’ulteriore

collaborazione ecumenica tra le due Chiese di Roma e di Mosca.

Il problema ecumenico

A cent’anni dall’inizio del movimento ecumenico – inizio che

convenzionalmente viene datato nel giugno 1910, in occasione dell’Assemblea

internazionale promossa a Edimburgo dalle Società missionarie anglicane e

riformate – è doveroso chiedersi se le intese auspicate saranno soltanto

bilaterali, come tra Roma e Mosca, o potranno estendersi anche ai cristiani di

altre Chiese e Confessioni. Infatti l’unità per la quale Cristo ha pregato

riguarda tutti i suoi discepoli e riguarda la nostra intelligenza del mistero

dell’Una et sancta, che è l’intero suo Corpo, l’unica sua Chiesa.

Nel periodo del cammino successivo a Edimburgo, le Chiese Ortodossa e

Cattolica rimasero a lungo estranee al movimento ecumenico, che però “a

posteriori” Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ut unum sint, non esita a

riconoscere come nato e progredito sotto la guida dello Spirito Santo. E a noi

tocca vigilare perché il movimento ecumenico resti sotto l’azione dello Spirito e

non diventi iniziativa di politiche ecclesiastiche. In realtà persino l’ideale

dell’unità è esposto alla tentazione demoniaca di edificare una sorta di Babele

o di perseguire obiettivi mondani. Ora, camminare tutti insieme presenta molte

più difficoltà, ma offre più garanzie che ad operare sia lo Spirito.

Come allora – mi domando – dialogare con quella parte dell’ecumene

cristiana che, in campo antropologico ed etico, ha una visione diversa da

quella delle nostre tradizioni cattolica e ortodossa? Come riuscire a sentirsi

nella comunione – che è opera dello Spirito di Dio – anche con chi ha un

approccio culturale meno critico del nostro nei confronti della modernità e

della società contemporanea?

Il problema è molto complesso: personalmente non ho soluzioni o

proposte, come forse nessuno di noi le ha. Non per questo però dobbiamo

accantonarlo o procedere ignorandolo!

La carità di Dio (Deus caritas est) certamente non ignora questo

problema e ci chiede di farlo nostro. Sarebbe libertà senza responsabilità

scegliersi i compagni di navigazione e buttare a mare quelli scomodi. Il Signore

Gesù non l’ha fatto neppure con chi lo rinnegava o lo tradiva. Ora, le distanze

tra i cristiani, che hanno opzioni etiche e culturali differenti, sono molto

inferiori – anzi neppure paragonabili – a quelle tra Gesù e il suo traditore. Non

dimentichiamo che con l’unico battesimo i cristiani si appartengono gli uni gli

altri e divengono responsabili gli uni degli altri. Tutti dovremo rispondere

davanti a Dio di che cosa abbiamo cercato o non cercato di fare, a favore dei

fratelli di fede, per vivere con loro una comune e condivisa fedeltà alla sua

Parola.

Il riferimento a Cristo

La fedeltà al Cristo è accogliere il dono del comandamento nuovo, è

accoglierci gli uni gli altri con lo stesso amore con cui egli ci ha accolti e amati

(cfr. Gv 13,34). È, ancora, accogliere come chiamata il suo invito: “Imparate da

me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Nasce così la domanda se, nei

confronti dei nostri contemporanei e della società pluralista attuale, non

dobbiamo cercare un approccio che sia il più possibile nel segno della mitezza

e dell’umiltà del Signore Gesù. Senza mai rinunciare alla parresia di una parola

profetica, come e quando è lo Spirito a suggerirla, la nostra testimonianza deve

sempre imparare a conformarsi a quella del Cristo. Ciò avviene nella misura in

cui da Dio, e non da noi, ci attendiamo la sconfitta del male e l’avvento del

regno atteso.

Dopo Pasqua, i discepoli domandano quale è il tempo – se quello

presente o uno futuro – della realizzazione del regno promesso, ovvero di una

società giusta e perfetta nello shalom di Dio. Dal Risorto ricevono questa

risposta: “Non spetta a voi conoscere tempi e momenti che il Padre ha

riservato al suo potere…” (At 1,7). Non conoscerne tempi e momenti, ovvero le

modalità del suo avvento, implica anche il fatto di non avere adeguata

competenza e sufficiente potere per realizzare l’obiettivo: è invece un potere

che compete solo alla paternità di Dio.

Questa consapevolezza del proprio limite è l’umiltà di cuore che la

Parola chiede ai cristiani. Non comporta rassegnazione. Gesù Cristo ha vissuto

l’umiltà nel suo ministero, che non è stato certamente quello di un rassegnato

o di un rinunciatario. Anzi, proprio nell’umiltà della sua kenosis, la sua carne

umana è stato il luogo unico e singolare della manifestazione della gloria di

Dio: lo Spirito infatti gli faceva compiere le opere nel nome del Padre (cfr. Gv

5,25), non di se stesso.

Così può essere anche della presenza della Chiesa nella società: una

presenza senza pretese. Ciò avviene nella misura in cui i cristiani e le chiese

non presumono di sé e delle proprie possibilità, ma sanno limitarsi a dare con

coraggio e generosità il proprio contributo convinto e sincero alla ricerca del

bene comune, sapendo però che solo a Dio compete di condurre a compimento

il senso della storia e confidando che il suo Spirito lo sta comunque facendo,

al di là dei nostri riscontri.

Presenza e presenza pubblica, dunque, ma presenza nella mitezza: è

questa la condizione per mettersi in atteggiamento di ascolto e di dialogo con

qualsiasi differente identità religiosa o con qualsiasi alterità culturale. Inoltre,

presenza cristiana nella società è quella sempre consapevole che, nei confronti

del potere terreno e del suo esercizio, la sequela del Cristo comporta una certa

distinzione e una certa distanza, per non scordare del tutto né le sue parole –

“Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 22,21)

–, né le sue scelte: “Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si

ritirò di nuovo sul monte, lui solo” (Gv 6,15). Proprio interiorizzando la

testimonianza evangelica del suo Signore, la coscienza cristiana offrirà alla

società un concreto e pubblico servizio, che potrà essere apprezzato e risultare

fecondo.

Religioni nello spazio pubblico e necessità del dialogo

L’istanza più volte espressa da Kirill sulla necessità del dialogo tra le

religioni, come tra le culture, presuppone l’ottica del ruolo positivo che deve

essere riconosciuto ai rappresentanti delle organizzazioni religiose e culturali

da parte delle istituzioni pubbliche della società. Egli lo auspica ai livelli

nazionale e internazionale. Penso che possa valere a tutti i livelli, anche a

quelli intermedi e locali della vita sociale. Il problema è di grande attualità e

importanza.

Oggi, nel contesto del pluralismo, appare più evidente di ieri che

l’esperienza religiosa non può essere confinata nella sfera privata. Anzi, spesso

viene riconosciuto come utile e imprescindibile il contributo di sapienza e di

discernimento che può venire dalle grandi tradizioni religiose in diversi ambiti

del pubblico dibattito: ad esempio, sulle questioni etiche e sulle relative norme

giuridiche, sulla ricerca e perseguimento del bene comune, sul governo della

convivenza civile tra componenti sociali portatrici di identità religiose o

culturali differenti.

Poiché ogni religione porta in se stessa inevitabilmente e giustamente

una pretesa di assolutezza di tipo veritativo, è necessario, soprattutto in

contesto di pluralismo religioso, che alle comunità religiose e alle loro

organizzazioni rappresentative lo spazio pubblico venga offerto dalle istituzioni

civili in modo equo e imparziale. Ciò esige reciprocità: il rispetto delle loro

autonomie da parte dello Stato e il rispetto del sistema legislativo e delle regole

democratiche da parte delle religioni.

Lo Stato deve saper essere la casa di tutti i cittadini – qualunque sia la

loro fede o appartenenza religiosa e culturale, etnica e sociale –, e pertanto non

può configurarsi in senso né etico né confessionale. Suo compito è favorire e

valorizzare la spontanea ed autonoma presenza delle religioni e il loro apporto

valoriale. In democrazia si terrà conto anche della loro reale e differente

consistenza storica e sociale nella vita del paese, curando tuttavia sempre i

diritti delle minoranze, ma armonizzandoli a quelli delle maggioranze.

Ora, allo scopo che le istituzioni civili si rapportino correttamente nei

confronti delle religioni, è pure necessario che le loro organizzazioni

rappresentative si incontrino per conoscersi e ascoltarsi, per dialogare e

collaborare, per constatare l’esistenza di principi etici comuni e concordare

come proporli correttamente alla vita sociale dei cittadini, ovvero al riparo dalle

derive del proselitismo, del fondamentalismo, dell’integralismo.

Sarebbe molto interessante che questa nostra esigenza di affrontare

criticamente la questione delle religioni nella spazio pubblico della “polis

venisse confrontata – da chi si occupa di questo problema – con la visione

dell’Ortodossia espressa da Kirill. Nella nostra città, che si prepara a mettere

sul tappeto tale questione nel 2013, in occasione del XVII centenario del

rescritto di Costantino impropriamente chiamato “editto di Milano”, sarebbe

interessante che si incontrassero, in un seminario di studio, competenti – sia

ortodossi, sia cattolici e non – per un confronto alla luce del proficuo dibattito

che il libro del Patriarca Kirill certamente solleverà.

E far pensare e far dialogare è sempre un grande merito. È il merito che

volentieri attribuiamo a questa pubblicazione.

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano